Racconto
Giovedì mattina
Sogno qualcosa di terribile, da incutermi un tale spavento che vengo strappato via dal sonno! Ma quando sono sveglio non ricordo più niente. In ogni caso mi alzo dal letto riposato: finalmente sono riuscito a dormire tutta la notte. Guardo l’orologio, sono le 7:30, è giovedì e ho un appuntamento all’ospedale alle 10:30 per fare un’ecografia all’addome. Ho un dolore in quella zona che porto avanti da un bel po’ di tempo. Ammetto di essere un po’ preoccupato. Basterà l’ecografia? Dovrò fare anche una TAC? Per darmi serenità penso di preparami la solita colazione abbondante, ma un attimo! Devo andare all’esame digiuno, niente colazione, niente caffè… Sale un senso di impotenza, accompagnata da qualcosa simile alla rabbia, come odio in forma di aria compressa dentro ad un barattolo. Mi lavo i denti e la faccia, dovrei fare una bella doccia, ma non la faccio, come ripicca per dover stare a dieta. Quanto mi manca un caffè! Mi vesto e sento l’odore tra me e i vestiti che indosso l’odore del corpo che ha dormito. Non ho voglia di accendere ne radio ne televisione. Decido di sdraiarmi su quella che chiamo “poltrona psicoanalitica”. La osservo un attimo, è di acciaio cromato e pelle blu, è regolabile ed è lunga abbastanza per appoggiare i piedi. Naturalmente è comodissima e non sfigurerebbe, immagino io, nello studio di uno psicoanalista freudiano. Poco dopo essermi sdraiato mi addormento. Comincio a sognare. Una montagna altissima si staglia davanti a me, la vegetazione diventa sempre più rada dove la montagna è sempre più alta. Guardo in basso e noto che sono scalzo. Comincio a camminare sull’erba soffice e la sensazione è gradevole. Osservo la montagna e decido di salire, benché non ci siano sentieri. Tutto è selvaggio, sembra che nessun uomo prima di me sia stato lì. Ben presto alla tenera erba prende il posto un duro terreno pietroso. Pietre aguzze, taglienti al punto da farmi sanguinare i piedi. Il dolore mi fa tornare alla realtà. La prima cosa che faccio dopo essermi svegliato ancora mezzo smarrito, è guardare l’orologio: sono le 10:00. Devo correre in ospedale o arriverò in ritardo.
Sono sdraiato su un lettino ricoperto di carta, assurdamente scomodo, tutte le ossa della schiena che sono a contatto con la superficie mi fanno male. Il medico maneggia lo strumento senza mai guardarmi. Tiene le labbra strette, tanto che sembrano ancora più sottili di quanto lo sono già. Mi pone il gel sull’addome e comincia l’esame. Io non capisco niente di ciò che fa e vede muovendo la sonda. Il suo volto è inespressivo. Non mi sento a mio agio. Provo un sentimento di sfiducia e ansia. Quando l’esame ha termine, il dottore mi porge della carta per pulirmi dal gel, in silenzio. Mi fa accomodare su una sedia. Stampa delle immagini in bianco e nero, con zone più chiare ed altre più scure, pinza gli stampati su una cartella che posa sul tavolo. Poi prende un piccolo microfono e comincia a dettare al computer, la diagnosi suppongo, ma in un gergo medico a me totalmente incomprensibile, ciò che ha detto è ora testo che stampa, pinzato anch’esso alla cartella.
Lentamente cammino verso casa, ripenso alle immagini dell’eco e al gergo medico del referto, criptici ed enigmatici. Devo aspettare il referto del medico per conoscere la diagnosi. Quando sono nel mio soggiorno l’orologio segna le 11:45, sono stanco senza aver fatto chissà quale sforzo. Mi sdraio sulla mia poltrona blue, la stanchezza vince l’ansia e ben presto mi addormento. Sogno nuovamente la montagna, il prato, più in su il terreno brullo. Guardo i miei piedi, ora sono bendati, alzo lo sguardo e intravedo un’abitazione. C’è una piccola folla di gente davanti, persone vestite di cenci e dall’aspetto indisposto. Istintivamente mi avvicino, mi faccio largo ed entro nella casa. Un’unica stanza, alle cui pareti erano persone evidentemente malate. Improvvisamente mi trovo davanti una donna anziana che mi fissa con i suoi occhi scuri e profondi, occhi che scrutano. Lo sguardo sovrumano di una donna dotata di qualcosa che ancora non conosco.
“Chi sei?”, pronuncio a bassa voce.
“Paquita”, risponde e mi prende per mano.
Io quel nome lo avevo già sentito ne sono sicuro. Ma non era un vuoto di memoria (si possono avere vuoti di memoria in sogno?) e neanche censura (non esiste la censura in sogno), era un momentaneo oscuramento. Forse da sveglio mi sarei ricordato da dove spuntava quel nome. Due uomini dall’aspetto robusto mi presero e mi posarono su largo letto che si trovava al centro della stanza, aveva tanti ornamenti ma sopratutto era comodo. Paquita si avvicinò, quasi volesse baciarmi tanto i nostri respiri si intrecciarono e scambiavano, mi accarezzò il viso: quelle rade carezze di pietà antica.
Quello che segue lo ricordo bene, Paquita scopre l’addome e comincia a massaggiarlo con il pugno chiuso facendo cerchi, sempre più profondi, sempre più stretti. Il piccolo cesto di banane che sembra la sua mano fruga, stropiccia, in un unico punto, il punto che mi duole. Vedo la mano di Paquita insanguinarsi, entrare nella mia pancia, ma non provo dolore. Da quello squarcio estrae qualcosa di repellente, difficilmente descrivibile, sembra l’incrocio tra un feto antropomorfo e un arbusto dalle fitte radici. Quella cosa quando venne portata via mi fece pietà.
Mi sveglio, il male era stato estratto e io non provavo più alcun dolore. Dalla Chiesa sento provenire le campane di mezzogiorno.